Dopo anni di tensioni e 17 mesi di guerra, potrebbe (il condizionale è d’obbligo) aprirsi qualche spiraglio per un processo di stabilizzazione della Libia. Il dialogo politico, in questo momento, seppure tra inevitabili difficoltà e momenti di tensione, sembra la strada maestra che la più parte degli attori locali e internazionali intendono percorrere.
I motivi? In primo luogo molti degli attori internazionali invischiati nel conflitto libico hanno investito nella guerra tra i gruppi dell’ovest e l’esercito di Haftar, in particolare Russia e Turchia che hanno fornito armi e militari alle due parti e ora vogliono “raccogliere i frutti” che solo una Libia stabile può garantire. In secondo luogo la povertà non giova a nessuno, né alle grandi potenze, né alla popolazione che si è sollevata più volte, tanto in Tripolitania quanto in Cirenaica, per protestare contro la povertà diffusa, l’assenza di elettricità e la disoccupazione, che in Libia sfiora il 49%. Il Paese più ricco del Nord Africa ora è il fanalino di coda. Un paradosso se consideriamo le potenzialità del Paese. I leader ne sono consci e sanno bene che ulteriori proteste potrebbero mettere a rischio non solo la stabilità interna ma anche la loro legittimazione.
Restano alcuni dubbi sul meccanismo di voto necessario per scegliere chi guiderà il Paese verso la transizione. Il meccanismo prevede che ogni membro del nuovo governo abbia il 70% delle preferenze come rappresentante delle tre principali regioni del Paese nel Consiglio presidenziale e come Presidente e Premier. In caso non si riuscisse a ottenere i voti necessari ogni regione potrà presentare delle liste di 4 candidati. Vince la lista che ottiene il 60% dei voti al primo round di votazioni. Se nessuna lista raggiunge il quorum necessario le prime due liste con il maggior numero dei voti vanno al ballottaggio. Vincerà chi avrà ottenuto il 50% più uno dei voti. Si tratta di un sistema già utilizzato in alcuni Paesi ma che, forse, non si adatta al contesto libico, profondamente diviso, in cui una “maggioranza secca”, che scontenterebbe il 49% dei votanti e dei loro rappresentanti, potrebbe portare a qualche “frizione” nel Paese.
Se, dunque, il dialogo intra-libico, mai come oggi appare aperto, le criticità non mancano.
Anche per questo, ai margini del “piano Unsmil”, ci sono interessati movimenti nell’ex Jamahiriya pronti a creare strade alternative. Il leader a marchio Onu, Fayez al-Serraj sarebbe pronto a nominare un primo ministro in Libia che possa dialogare con le autorità della Cirenaica. Dopo i tentativi di dialogo tra il primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) Fathi Bashagha e Aquila Saleh (presidente del parlamento di Tobruk) e quelli tra il vice premier Ahmed Maitig e il generale Khalifa Haftar, anche il capo del Gna sembra intenzionato a percorrere la sua strada nel dialogo tra est e ovest. E’ chiaro che chi saprà proporre il “tandem” più credibile avrà maggiori possibilità di accreditarsi nei futuri equilibri del Paese.
Ma non ci sono solo dinamiche intra-libiche a propendere per il dialogo. Anche alcuni attori esterni sembrano avere aperto gli occhi. Primo tra tutti l’Egitto che, sempre più lontano da Haftar, volge lo sguardo a Tripoli. Il 26 dicembre una delegazione di alti funzionari egiziani si sono recati in visita ufficiale nella capitale per la prima volta dopo anni. E’ possibile che al-Sisi miri alla riapertura di una sede diplomatica nell’ovest del Paese, divenendo, così, assieme a Turchia e Italia uno dei pochi player ad avere una sede funzionante in Libia.
Più difficile, invece, capire il gioco dei due più importanti protagonisti esterni: Russia e Turchia. Per Erdogan la Libia è, sì, un asset importante per la sua proiezione geostrategica nel Mediterraneo, forte anche delle sue basi nel Paese, ma una Libia destabilizzata è anche un problema che si declina in poche ma semplici parole: riscossione dei crediti, investimenti nella ricostruzione e affari “sul piatto” che possono essere realizzati solo “in tempo di pace”. Di questo il Sultano è ben conscio.
Resta ora da capire cosa intende fare la Russia. Pochi giorni fa due emissari di Saif al-Islam Gheddafi, il figlio prediletto del raìs, sono stati ricevuti a Mosca dal vice ministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov. Periodicamente il nome di Saif al Islam torna a circolare e la sua presenza a Mosca è stata segnalata più volte. Difficile dire se e quando potrebbe aspirare a un ruolo nel Paese e al fianco di chi. Una cosa appare, però, certa. Anche il Cremlino sembra prendere le distanze da Haftar. Questo potrebbe in qualche modo farlo giungere a patti con l’amico/nemico turco? Partiamo da un presupposto: una Libia stabile è la precondizione fondamentale sia per i russi che per i turchi per portare avanti le loro mire geopolitiche ma soprattutto per incassare i ritorni dei loro investimenti, visto che entrambi i Paesi non hanno risorse sufficienti per questo tipo di proiezioni di potenza, anzi sono vicini al rischio dell’overstretching. Questi sono fattori che possono indurre a un cauto ottimismo per trovare un accordo. Ma, anche in questo caso, la cautela è d’obbligo.
E l’Italia? Roma, potrebbe tornare alla ribalta nel dossier libico: al-Sarraj e il suo vice hanno recentemente visitato Roma, aggiungendo che l’Italia gioca un ruolo importante perché è l’unico Paese in Europa che può dialogare con tutti, sia con i russi che con gli americani. Inoltre, oltre alla costante presenza del nostro ambasciatore a Tripoli, l’Italia ha finalmente nominato il “suo” inviato speciale per la Libia, l’ambasciatore Pasquale Ferrara. Ora sta a noi giocare questi nuovi asset per implementare una politica inclusiva, coesa e lungimirante per la Libia. Se saremo in grado di farlo potremmo aspirare a un nuovo ruolo nel Paese.